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Published : 16/07/2020 11:22:02
Categories : Conversazioni
Ariel Luppino, eccentrico scrittore argentino nato a Monte Grande nel 1985, autore de “Le brigate” (2017), “Las maquinas orientales” (2019) e “¡Paraguayo!” (in uscita il prossimo settembre con Club Hem), è stato definito da Gabriela Cabezón Cámara come una “nuova punta della letteratura argentina” e da Bellatin come un genio segreto della tradizione letteraria latinoamericana.
La conversazione che segue a questa brevissima introduzione è il risultato di ore di dialoghi con Ariel Luppino, genio letterario che respira letteratura come se fosse il suo unico ossigeno, grandioso narratore di finzioni ma anche di momenti vissuti e che si tingono di magia, come i suoi pomeriggi a casa di Alberto Laiseca. Ma di questo (forse) ne parleremo in un’altra occasione.
Come nasce in te l’inquietudine letteraria? Qual è il tuo approccio alla scrittura?
Mi sono reso conto che attraverso la letteratura avevo la possibilità di avanzare su un piano magico. E che tutto quello che mi sarebbe successo nella vita avrebbe assunto un nuovo significato. E mi sono reso conto che sarei potuto arrivare alla verità attraverso la finzione, pur percorrendo una strada molto tortuosa. E quando ho avuto quella rivelazione non ho fatto altro che scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere e scrivere per continuare a scrivere.
Dove ti collochi nell’ambito dell’azione letteraria in Argentina, o in America Latina in generale, oggi?
Ho scoperto la letteratura latinoamericana grazie a Loris Tassi e Mario Bellatin e in un periodo piuttosto recente. Avevo letto ciò che viene definito “letteratura latinoamericana” e “letteratura universale” (principalmente letteratura europea e nordamericana), ma avevo letto senza leggere, senza una presa di coscienza. Per me la Letteratura, con lettera minuscola o maiuscola, è sempre stata la letteratura argentina. Cosa assurda, se vista da fuori o anche se vista dall’interno, ma questa è la verità. Ho sempre odiato e amato la letteratura argentina, mi è sempre sembrata pessima e geniale al tempo stesso. Ma insisto: grazie a Loris Tassi ho preso coscienza del fatto che la letteratura che piaceva a me non era quella argentina, bensì un certo tipo di letteratura latinoamericana: Pablo Palacio, César Vallejo, Roberto Arlt, Horacio Quiroga, Alberto Laiseca, Herrera y Reissig, Felipe Polleri… Loris lo ha fatto mostrandomi la collana che dirige, Gli eccentrici, e invitandomi a formarne parte. Questa per me è la tradizione, la vera tradizione. Io potrei aggiungere Marosa Di Giorgo, Silvina Ocampo e Armonía Somers. In seguito Bellatin mi ha fatto capire che in questa tradizione ero presente anche io e che non ero solo, ma c’erano altri scrittori come Cronwell Jara y Jaime Sáenz, ad esempio. Me lo ha fatto capire attraverso il testo presente nella quarta di copertina di “¡Paraguayo!”, il mio terzo romanzo. E senza dubbio mi ha fatto comprendere che lui stesso era un altro e inoltre era anche vivo, dato di fondamentale importanza. Grazie a lui avevo letto Polleri (anche lui vivo) e grazie a lui ho scoperto nuovamente Cronwell Jara nella scia dei “geni segreti”. Ed entrambi mi hanno fatto comprendere una cosa ovvia per tutti ma non per me: la letteratura argentina è parte della letteratura latinoamericana.
In cosa consiste il tuo progetto letterario, il tuo laboratorio artistico?
Scrivo su una serie di quaderni. Scrivo a mano perché mi piace disegnare le parole: lettera per lettera. Successivamente passo tutto al computer. È un modo di scrivere due volte. E tutti i miei romanzi sono stati scritti in quei quadernetti. Ma il processo non finisce qui. Mi piace giocare con aggiunte e variazioni. In questo modo, ho vissuto Club Hem come un grande laboratorio: un banco di prova letterario. Non penso alla scrittura in modo indipendente dagli altri progetti delle case editrici con cui pubblico. E La Oficina Perambulante di Carlos Ríos è un altro laboratorio folle, fatto di cartone e in scala ridotta. È più un progetto artistico-letterario che una vera e propria casa editrice, almeno nei termini convenzionali della parola. In ogni caso, sono case editrici che mi permettono di mostrare il mio progetto ed entrare in dialogo con altri progetti: hanno la particolarità di essere unici, in tutti i sensi. E penso che Edizioni Arcoiris sia l’editore pazzo da questo lato del mondo. Questa intervista ne è la prova.
Qual è l’opera che non hai scritto ma che vorresti avere scritto?
Laiseca ha dimostrato che in Argentina non è sufficiente essere dei geni. Ha impiegato dieci anni per scrivere un romanzo di oltre mille pagine e ha impiegato ventiquattro anni per riuscire a pubblicarlo. In un contesto profondamente avverso, Laiseca non ha mai creduto di essere inferiore a Joyce, e infatti non lo è. Quando gli dicevano di accorciare il suo romanzo per poterlo pubblicare, non lo fece. Perché credette sempre in una grande vittoria finale: ne fu sempre convinto. E non ha mai negoziato la sua arte. Laiseca ha dimostrato che la letteratura è fondamentale. Credo che un romanzo come “Los Sorias” esista affinché si scrivano romanzi molto differenti, affinché tutti noi che veniamo dopo di lui, possiamo fare qualcosa di nuovo. E credo che per la letteratura di un Paese sia molto importante l’esistenza di un’opera di questo tipo. Un romanzo mostruoso, unico nel suo genere, gigante e luminoso che irradia tutti gli altri. Mi piacerebbe che i giovani d’Italia lo sapessero. E mi piacerebbe che anche i giovani in Argentina lo sapessero e non lo dimenticassero mai.
Ti sei mai pentito di qualcosa che hai scritto? Ad esempio un romanzo o un racconto.
No. Perché i romanzi che non ho pubblicato saranno presenti in quello che pubblicherò. Anche se lo saranno in modo fantasmatico. In un certo modo, quest’opera invisibile è la fonte da cui si alimentano tutti gli altri romanzi. In una presentazione de “Le brigate” qualcuno ha chiesto: «Cosa nasconde la finzione di Luppino?». Io direi che nasconde altre finzioni, ed è lì che troviamo la Verità.
A quale dei tuoi tre romanzi sei maggiormente legato?
È difficile rispondere a questa domanda. Forse dovrei dire “Le brigate” perché è il romanzo che mi ha aperto le porte e mi ha permesso, ad esempio, di conversare con te in questo preciso istante. Mi ha dato la possibilità di essere letto anche da chi sta dall’altro lato del pianeta e in una lingua diversa. Ma non ho mai pensato a un romanzo staccandolo dagli altri. Intendo dire, ogni romanzo può essere letto autonomamente, ma io non penso a un romanzo, bensì a tutti i romanzi. Una volta un’amica mi ha detto: «Chi non legge tutti i tuoi romanzi non ne comprende nemmeno uno». E nonostante questo non sia vero -la sua era una battuta- capisco ciò che voleva dirmi: bisogna leggere un romanzo per poi poter leggere gli altri, letteralmente.
Che vorresti che pensassero di te i lettori del 2120?
Non ho mai odiato la cosiddetta letteratura mainstream o i bestseller. Perché mi sembra che, grazie all’esistenza di tale letteratura, noi scrittori di altro genere possiamo scrivere ciò che preferiamo senza essere disturbati. Possiamo sempre andare un po' oltre e persino superare i nostri limiti. Vale a dire, diventiamo gli strani, gli eccentrici e gli editori pubblicano tutto ciò che scriviamo purché sia qualcosa di molto folle, quasi impubblicabile. Perché anche i lettori più convenzionali si stancano di leggere sempre la stessa cosa. D'altra parte, ci saranno sempre lettori d'avanguardia. Quindi, quando scopro che traducono uno di quegli scrittori, sono contento e se li nominano per un premio come il Man Booker Prize, desidero che lo vincano (vorrei che tutti i nominati lo vincessero allo stesso tempo, in modo che la felicità possa essere globale). Perché grazie a loro possiamo fare qualcosa di diverso. In qualche modo, se il mainstream non esistesse, dovremmo inventarlo. E vorrei che un lettore del 2120 continuasse a considerarmi strano, eccentrico e si identificasse con me.
Barbara Stizzoli